Nas’ ‘King’s Disease’ Gets Derailed by Petty Misogyny
Il Ottobre 19, 2021 da adminL’orgoglio nero e la giusta rabbia di Nas, che animano gran parte di King’s Disease, risuonano maggiormente quando traccia una linea tra il suo presente e il passato pre-fama. Toccando l’infame legge sul crimine del 1994 che ha lanciato i giovani neri come “super predatori”, il trauma emotivo che il successo non può risolvere (“Corner executive born in ghetto hell/ Where metal yell”), e la morte nel 2020 di Kiing Shooter, il rapper ventisettenne di Queensbridge che era stato firmato per la sua etichetta, ripercorre la sua cupa visione del mondo di nuovo post-George Floyd. Il lazo del diavolo è un cerchio piatto.
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King’s Disease a volte è anche una rubrica di consigli di Nas, e le pepite di saggezza OG che cerca di dispensare variano selvaggiamente in qualità. Per ogni perla, c’è uno stronzo. Molti stronzi sorgono quando Nas tratta la rima multisillabica come un fine proprio. “La parte più stupida dell’Africa ha prodotto neri che hanno iniziato l’algebra”, sostiene nella title track. Su “10 Points”, l’impulso di consigliare “street dudes” lo porta in pascoli insipidi: “prendi un avvocato, leggi il tuo contratto e mangia del cibo”.
Lo stronzo più grande e inamovibile di tutti è la meschina misoginia di Nas. Mentre spende gran parte di King’s Disease a dare nomi e cognomi a uomini di ogni tipo – miliardari, dirigenti discografici, pionieri della dancehall, giocatori di basket, Beatles, il suo allenatore di boxe, i suoi ragazzi – spende una pari quantità di tempo a desiderare che le donne stiano al loro posto. Prende un colpo basso a Doja Cat, una donna che potrebbe conoscere o meno. La sua indignazione sale ad un livello febbrile su “The Definition” quando arriva sull’argomento di Gayle King, la giornalista televisiva che ha tirato fuori le accuse di stupro di Kobe Bryant il giorno della sua morte. “Replace Me” e “All Bad”, riflessioni generiche su storie d’amore fallite, appaiono come aggiunte calcolate alla track list progettate per mostrare che ha avuto relazioni “normali”, alla luce delle accuse di abusi domestici che la sua ex moglie Kelis ha ventilato contro di lui nel 2018.
Nas ha negato con veemenza le accuse di Kelis, così come quelle fatte dalla sua ex Carmen Bryan, che ha scritto della loro relazione nel 2006: “La cosa successiva che sapevo era di essere colpita in faccia con un pugno chiuso. L’impatto del colpo fu così feroce che vidi le stelle”. In King’s Disease, raddoppia queste negazioni e avanza un bizzarro senso di vittimismo maschile. A meno di un minuto dall’inizio dell’album, se la prende con la cultura della cancellazione e con Kelis, che secondo lui ha inventato le sue storie di abuso per dispetto. Su “Til the War Is Won”, un tributo performativo alle donne nere, disconosce “gli uomini codardi che ti picchiavano”, poi mormora, come un inciso: “Mai io”. Che Nas protesti troppo è oggetto di dibattito; in ogni caso, si sente chiaramente dispiaciuto per se stesso. Sembra anche che non veda l’ironia nell’affermare che alcune donne vogliono “farlo crollare”.
Al suo meglio, King’s Disease è un redux di Illmatic, un ritratto fresco degli ormai mitici anni da hustler di Nas che espande il suo universo di Queensbridge con nuovi personaggi e aneddoti e lo trova in forma vintage come rapper e narratore. Al suo peggio, è un tentativo incauto di nascondere le accuse di abuso e una cruda vetrina della sua politica sempre più discutibile quando si tratta di donne. 26 anni dopo Illmatic, Nas ha ancora spazio per crescere.
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