Guida alla sinfonia: La Nona di Beethoven (‘Corale’)
Il Dicembre 24, 2021 da adminNicholas Cook lo dice bene: “Di tutte le opere del repertorio principale della musica occidentale, la Nona Sinfonia sembra la più simile a una costruzione di specchi, che riflette e rifrange i valori, le speranze e le paure di coloro che cercano di capirla e spiegarla … Dalla sua prima esecuzione fino ai giorni nostri, la Nona Sinfonia ha ispirato interpretazioni diametralmente opposte”. Queste interpretazioni includono quei primi ascoltatori e commentatori che sentirono e videro in essa la prova che Beethoven aveva perso la testa dal punto di vista compositivo; che il pezzo, con la sua scala incomprensibile, le richieste tecniche quasi impossibili, e soprattutto il suo idealismo umanista follemente utopistico nell’impostazione corale dell’Inno alla Gioia di Friedrich Schiller nel suo ultimo movimento, era una follia. Dall’altra parte, Hector Berlioz pensava che fosse il “culmine del genio del suo autore”.
La Nona Sinfonia è probabilmente il singolo pezzo che ha ispirato la metodologia dell’analisi musicale, una disciplina di lettura ravvicinata musicologica forense della partitura che ha cercato di dimostrare quanto sia davvero una concezione unitaria e coerente questa sinfonia sotto la sua superficie caoticamente diversa. E’ stata considerata l’opera centrale della musica classica occidentale sia da coloro che la immaginano come il ne plus ultra dell’immaginazione e della maestria sinfonica, tecnica e compositiva, sia da coloro che vogliono dire che la musica classica può abbracciare il mondo al di fuori della sala da concerto così come al suo interno, e che l’opera è una campana sonora di cambiamento sociale, di speranza emotiva e persino di riforma politica.
Ma queste riflessioni e rifrazioni sulla e della Nona Sinfonia devono anche comprendere i modi in cui il pezzo è stato usato come una manipolazione dell’orecchio da regimi poco raccomandabili. La melodia dell’Inno alla Gioia – che Beethoven compose come un motto che il mondo intero doveva portare nel cuore, per diventare un inno nazionale dell’umanità stessa, qualcosa di molto più grande nel suo impatto anche degli inni degli stati nazionali che erano emersi all’inizio del XIX secolo – è stato adottato come motto delle dittature così come delle democrazie. Come dice il più recente biografo di Beethoven, Jan Swafford, “come si considerava la Nona … dipendeva da che tipo di Eliseo si aveva in mente, se tutte le persone dovevano essere fratelli o se tutti i non fratelli dovevano essere sterminati”. (Il libro di Esteban Buch, Beethoven’s Ninth – A Political History ha più informazioni su questo particolare aspetto della storia della sinfonia). Oggi, l’Inno alla Gioia è l’inno dell’Unione Europea e il suono delle celebrazioni di Hogmanay e Capodanno ovunque dalla Germania al Giappone, ed è un appuntamento fisso annuale ai Proms, tradizionalmente nella penultima notte della stagione, come quest’anno. Alcuni ritengono che Beethoven abbia semplicemente avuto troppo successo nello scrivere una melodia che potesse davvero essere cantata da tutta l’umanità, e che la sua visione di fratellanza universale (o quasi – ci arriverò!) sia kitsch nel migliore dei casi, o politicamente pericolosa nel peggiore. Il direttore d’orchestra Gustav Leonhardt, parlando del finale, disse semplicemente: “Quell’Inno alla Gioia, parliamo di volgarità! E il testo! Completamente puerile!”
Quindi la domanda è: dato che la Nona Sinfonia appartiene al mondo intero, ed è ora la somma totale di tutte queste immaginazioni negli ultimi 190 anni, e le sue miriadi di esecuzioni e interpretazioni, cos’è effettivamente? Ci sono molti valorosi tentativi là fuori di mostrare come il pezzo leghi la stanza insieme, di domare le sue inquietanti discontinuità e diversità sentendolo come una costante rivelazione del tema dell’Inno alla Gioia. Quella melodia che la definisce è infatti costantemente prefigurata in tutti e tre i movimenti precedenti, e si può sentire il finale come il logico punto di arrivo di questo processo. Beethoven rende persino questo viaggio assolutamente esplicito all’inizio del finale, quando i violoncelli e i bassi, nelle loro esplosioni simili a recitativi, rifiutano la musica dei tre movimenti precedenti come inadatta allo scopo più grande del finale (un processo che viene confermato dall’assolo del basso, che canta le parole di Beethoven stesso: “O amici, non questi suoni!”); quel destino è rivelato nella melodia che si insinua e si impadronisce dell’orchestra, e si compie quando i solisti e il coro si alzano per cantare le parole di Schiller sul tema dell’Inno alla Gioia.
Questa traiettoria musicale è parallela al racconto emotivo della sinfonia, a partire dalla sepoltura del vecchio ideale eroico, come suggerisce Jan Swafford, nel primo movimento. Ricordate la Sinfonia Eroica: bene, il primo movimento della Nona rappresenta il seppellimento dell’eroismo militare del grande uomo che la sinfonia precedente celebra: la marcia funebre alla fine del primo movimento della Nona mette il chiodo nella bara del sogno napoleonico, che era crollato in modo così devastante e aveva prodotto le repressioni politiche che Beethoven stava vivendo e lavorando quando stava scrivendo la Nona nei primi anni 1820. Poi arriva l’ironica energia bucolica dello scherzo, e la visione arcadica del movimento lento, la musica più opulentemente lirica di Beethoven, un idillio che sogna un nuovo tipo di eroismo verso la fine della sua pastorale estatica, quando quelle fanfare di ottone appaiono improvvisamente tra premonizioni armoniche della musica più visionaria del finale. Il movimento finale stesso è poi una messa in scena di una vittoria per l’umanità, mentre gli individui si riuniscono nella gioia e nell’amore: una comunità di coro, solisti vocali e musicisti che non è guidata da grandi uomini e nemmeno da Dio, ma piuttosto è costruita sui legami tra “fratelli” del poema di Schiller, mentre questo nuovo, vero eroismo dell’umanità crea il proprio destino e plasma il mondo in cui Beethoven voleva vivere. Quel mondo include simbolicamente le diversità geografiche ed etniche così come comprende il secolare e il sacro, nella musica turca che interrompe il finale e con cui l’intera sinfonia termina rumorosamente, gioiosamente, travolgentemente; così come il suo contrappunto virtuosistico, la sua polifonia sensuale e la sua scrittura corale simile a una cantata – ma terribilmente impegnativa.
E’ proprio per la potenza della realizzazione da parte di Beethoven di questa visione sinfonica, drammatica e sociale (dimensioni su cui Beethoven lavora contemporaneamente e simbioticamente in questo pezzo) che esso pone così tante domande che risuonano, irrisolte, dopo qualsiasi esecuzione. Una riguarda il testo; anche se non si deve arrivare fino a Gustav Leonhardt, bisogna riconoscere che non tutti sono effettivamente inclusi in questa fratellanza utopica. Questo è implicito nei versi di Schiller: “Sì, se qualcuno tiene in serbo / un solo cuore tutto suo / Che si unisca a noi, o che pianga / Rubi dal nostro mezzo, sconosciuto”. Come dice Theodor Adorno: “Nel cattivo collettivo è insita l’immagine del solitario, e la gioia desidera vederlo piangere… In una tale compagnia, che ne sarà delle vecchie zitelle, per non parlare delle anime dei morti? Beethoven pone i versi di Schiller che puniscono la solitudine, nel mezzo dell’esposizione del tema dell’Inno alla Gioia, con uno strano diminuendo, cantato dai solisti e poi dal coro, un momento di dubbio in mezzo a un fomento di affermazione. Un dettaglio forse, ma un ricordo che anche questa società utopica universale ha le sue tenebre, i suoi cittadini esclusi. L’ironia è che Beethoven stesso, mentre sognava nella sua musica quella connessione gioiosa e amorevole con gli altri esseri umani, cercò ma solo raramente trovò quelle connessioni nella sua vita: la sua musica divenne ciò che non poteva. Non è una mia parola, ma la descrizione del direttore d’orchestra Roger Norrington dell’intervento del controfagotto, dei due fagotti e della grancassa, nella tonalità sbagliata, in una nuova velocità, e in quello che si capisce subito che è il battito sbagliato della battuta, un momento batetico che viene subito dopo che il coro ha invocato una visione di Dio con alcune delle musiche potentemente rivelatrici della sinfonia. Questo petardo musicale issa l’accompagnamento di un soldato ubriaco – cantato da un tenore che ingoia elio, naturalmente! – un inno all'”eroismo conquistatore”, mentre Beethoven manda selvaggiamente all’aria i vecchi ideali del grande uomo-militarismo, con una musica da banda turca presa in prestito e selvaggiamente esagerata dall’opera più popolare di Mozart durante la sua vita, Il rapimento dal serraglio. E dall’estremo opposto, c’è la musica che viene poco dopo l’inno di lode di questo privato incazzato (allitterazione – la forma più bassa della poesia, scuse!), la sublime impostazione dell’ultimo verso del poema di Schiller, una visione dell’abbraccio di “voi milioni”, il “bacio del mondo intero”, e un creatore “che abita oltre il baldacchino di stelle”. In una musica che suona scioccantemente lenta e spoglia dopo la doppia fuga infernale e la versione trionfalistica dell’Inno alla Gioia che abbiamo appena sentito, Beethoven fa intonare ai tromboni, agli archi bassi e alle voci maschili il più crudo degli “abbracci”. Non si tratta di conforto spirituale o sensuale, ma di qualcosa di molto più strano e profondo. Il compositore Jörg Widmann descrive addirittura questa musica come la creazione di un mondo sonoro “orribile”, in una musica che sembra contraddire direttamente il sentimento salutare delle parole. Invece, questo passaggio del finale suona lo stupore dell’umanità di fronte alla freddezza e alla vastità del cosmo, mettendo noi ascoltatori in contatto con la nostra microscopica futilità come individui e anche come umanità collettiva di fronte alle profondità della creazione. Quello che succede dopo – subito dopo che Beethoven ha creato un paesaggio sonoro celestiale su un vertiginoso accordo di nona dominante che brilla e pulsa con strani tremoli e registri, il coro che contempla quel “padre oltre le stelle” – è che la musica viene riportata sulla terra per l’inizio della coda sorprendentemente giubilante della sinfonia, e il tema dell’Inno alla gioia salta in un’esplosione in triplo tempo.
Ma questa contrapposizione climatica tra il cosmo e la celebrazione terrestre è solo uno dei più estremi delle decine di contrasti che definiscono il finale in particolare, e la sinfonia nel suo complesso. Si pensi all’immagine iniziale del plasma musicale da cui le melodie del primo movimento si insinuano e si schiantano nell’essere, o più avanti nel movimento d’apertura, l’accordo di prima inversione in chiave maggiore più dissonante della musica orchestrale – il ritorno in re maggiore del primo tema, che Jan Swafford giustamente descrive come il suono dell’eroe che “semina rovina” nella struttura della sinfonia. (Per Susan McClary, in un articolo del 1987, questo momento simboleggiava invece la “rabbia omicida strozzata di uno stupratore incapace di raggiungere la liberazione”, un’altra di quelle diverse interpretazioni che la Nona ha ispirato). Ci sono i colpi di timpani dirompenti e fuori fase che bucano lo scherzo, accanto ai quali i droni rustici della sezione del trio sono scioccamente stabili e di buon umore. Da sola, la musica del movimento lento Adagio molto e cantabile è serenamente lirica, ma nel contesto della sinfonia nel suo insieme, è una musica di estremo contrasto drammatico, un’oasi magica fuori dal caos che la circonda.
Tutti questi salti sempre più severi man mano che la sinfonia va avanti potrebbero essere al servizio del credo compositivo di Beethoven, che “anche quando compongo musica strumentale la mia abitudine è sempre quella di tenere l’insieme in vista” (che non è decisamente la stessa cosa di uno sforzo per una singola unità compositiva). Eppure quel “tutto” rimane pieno di domande, su chi siamo come società, su quale dovrebbe essere lo scopo delle nostre vite – e quali potrebbero essere i limiti della sinfonia. O piuttosto, la Nona Sinfonia è una realizzazione delle possibilità illimitate della sinfonia, per riflettere chi siamo, una cassa di risonanza per idee e ideologie molto diverse sulla musica, il mondo e il nostro posto in esso. Ecco perché la Nona Sinfonia di Beethoven è probabilmente l’opera centrale della musica occidentale: è una sfida oggi come lo era nel 1824 per i suoi ascoltatori, per gli esecutori e per ogni compositore che ha scritto una sinfonia da allora. Ma non perché questo pezzo sia un monolitico monumento di certezza; invece, è perché il suo gigantesco, irrefutabile potere musicale è una sorgente di infinito rinnovamento e possibilità. Un po’ come l’intera storia della sinfonia, si potrebbe dire…
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