Eroi di culto: I Digital Underground hanno raggiunto un picco così alto, così presto, che era necessario poco di più
Il Ottobre 2, 2021 da adminNon c’è, ovviamente, giustizia. Se ci fosse, una serie sugli eroi di culto sarebbe superflua. Ma per un esempio del particolare e peculiare tipo di ingiustizia da cui è lacerato il business della musica, basta confrontare la fama relativa di Greg Jacobs e Tupac Shakur.
Entrambi hanno iniziato nella stessa band – nello stesso senso in cui John Lennon e Pete Best hanno iniziato entrambi nei Beatles. Immaginate che Lennon sia ora meglio ricordato per aver dato a Best la sua pausa. No, questo non scansiona, ma comunque. Imagine.
Digital Underground era la band di Jacobs, e Shakur era un membro marginale; un roadie, poi un ballerino sul palco e un hype man il cui debutto discografico non avvenne prima che la crew di Oakland, California, avesse già raggiunto l’apice. Jacobs, che fece da mentore a Shakur, avrebbe co-prodotto il primo album di quest’ultimo, 2Pacalypse Now. Shakur apparve per la prima volta su Same Song, la traccia principale dell’EP This Is an EP Release dei Digital Underground del 1991. Era solo un anno dopo l’uscita del loro primo album, Sex Packets. Un picco breve e precoce, quindi. Ma un picco così alto che poco altro era necessario.
I Digital Underground erano uno di quei meravigliosi gruppi che si condannano allo status di culto nel migliore dei casi arrivando troppo presto. O, forse, essendo i primi a realizzare qualcosa che potrebbe benissimo non essere successo senza di loro, e da cui i loro successori raccolgono i benefici. Nel loro caso, fu la perfetta integrazione del P-Funk con il rap. Tre anni prima che il G-funk si impadronisse dell’hip-hop, hanno ripreso da dove George Clinton aveva ancora lasciato, cogliendo il groove elastico e rimbalzante dei Parliament/Funkadelic degli anni ’70 e la stravaganza delle mani della folla, insieme al techno-funk più teso degli anni ’80 di Clinton. (Il loro primo singolo degno di nota, l’allegro, rotolante party jam Doowutchyalike, conteneva non meno di tre campioni P-Funk, più altri da Chic, Prince e Vaughan Mason). A questo aggiunsero il notevole talento vocale della loro vera stella, che ha la particolarità di essere stato non uno, ma due dei migliori MC a maneggiare un microfono.
Come Shock G, Jacobs era l’uomo onesto, più o meno: un playa semi-parodico con una consegna fresca e insinuante e rime ingegnose, sporche e drogate. Poi, appiccicandosi sulla faccia una combinazione di naso e occhiali da barzelletta, si trasformò in Humpty Hump, un ibrido stravagante e strombazzante di Groucho Marx, Phil Silvers e Rudy Ray Moore. Humpty fu colui che avrebbe reso i Digital Underground, almeno per un po’ di tempo, famosi, prendendo il comando nella hit di svolta The Humpty Dance.
The Humpty Dance è quella cosa rara e gloriosa, una canzone novelty che è anche un grande disco pop, e rimane fresca ad ogni ascolto. Sono sempre deliziato dal suo ritmo gommato e dai suoi versi citabili – “Sia come sto vivendo che il mio naso è grande”; o, quando si descrivono i passi del titolo, “La gente dice, sembri MC Hammer sotto crack, Humpty.”
La vergogna è che The Humpty Dance e il fugace contributo di Shakur sono tutto ciò che rimane nella memoria popolare di Digital Underground. Sex Packets è un album straordinario, una pirotecnica esibizione di un’ora di arguzia, immaginazione, sleaze, battiti pneumatici e vari gusti di lirismo. Underwater Rimes, per esempio, è interpretato dal personaggio di MC Blowfish, che suona esattamente come si spera: “Esci di qui con quella barca e un bastone / Esci dalla fila, chiamerò il mio amico Moby-Dick”. Perché Jacobs dovrebbe farlo? Perché potrebbe, presumibilmente. Freaks of the Industry potrebbe non essere la traccia più sporca mai registrata – ma sicuramente suona come tale.
A circa due terzi del brano, Sex Packets decide improvvisamente di diventare un concept album satirico su una droga da strada che induce la sensazione di una reale e specifica esperienza sessuale, rendendola una dozzina di volte più coinvolgente del crack. Questo concetto, eseguito con delizioso elan, è il punto più alto della carriera dei Digital Underground.
Anche l’EP seguente è una bella cosa; niente in seguito sarebbe stato all’altezza. C’erano occasionalmente dei capolavori come No Nose Job, lo sfidante rimprovero comico di Humpty ai sabotatori dell’immagine del corpo nero (una specie di Baby Got Back scritto con una mente acuta piuttosto che un cazzo rigido). Ma il rapporto tra momenti ispirati e marmellate snervanti è andato rapidamente nella direzione sbagliata, con il risultato che, se avete l’album/EP combinato intitolato Sex Packets/Same Song, non avete bisogno di molto altro. Non importa. Quelle due ore (molto strane) di musica sono tra le più brillanti e inventive dell’hip-hop.
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